Killer Point

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Tanto è bello Matteo, quanto è brutta l’invidia. Quella logorante di chi Berrettini non ce l’ha. Noi sì, e abbiamo il dovere di godercelo quindici dopo quindici. In pochi nel mondo sono fighi come James Bond con lo smoking addosso, in pochissimi colpendo di dritto hanno la licenza tennistica di uccidere la partita. Come a Wimbledon, quando è arrivato a un passo, mica tanto di più, dalla coppa. Tirando forte, sì, ma anche tagliando la palla col rovescio, in slice, per fare in modo che il campo, andando via, non rimanesse spettinato. Nessun giocatore tinto d’azzurro in un secolo e mezzo di gioco su quei prati aveva fatto meglio di lui. Ha portato “lassù sopra” la bandiera del nostro tennis, tanto che la lingua italiana nel raccontarlo finisce per storpiarsi da sola. Un mostro di bravura di respiro internazionale, che sta al tennis come Benigni al cinema. In campo va sempre con il cappellino messo all’indietro, magari per evitare che la visiera proietti ombra su quella mascella da rivista patinata. Come dire che un giorno senza quel sorriso è un giorno perso, parafrasando quel grande amante del tennis che è stato Charlie Chaplin. Pure nei giorni lontano dal campo e dalla vittoria, tra caviglie di cristallo e muscoli messi male. Perché si rinasce tutte le mattine, anche quando non sembra. E lui ha imparato a capirlo. Perché i guerrieri non si arrendono e vivono alla continua ricerca di un livello migliore. Parola d’ordine “upgrade”, insomma. MB è uno che morde, non aspetta l’errore. “Batti lei” con Berrettini diventa “Abbatti lei”. E se il servizio non basta, a chiudere la pratica arriva il dritto. Definitivo come un cazzotto di Bud Spencer. Anche per questo lo chiamano “The Hammer”, il martello. Nelle giornate di particolare ispirazione, come succede agli artisti, è addirittura inarrestabile: di fronte a lui non resta che alzare le mani e invocare una sorta di resa sportiva. Il tennis, come un duello western, non perdona, tanto che alla fine della settimana solo uno ha la possibilità di brillare come una gemma. Nel sangue gli scorre Roma, ma pure una quota di Brasile che viene dalla nonna materna. La famiglia conta e conta Vincenzo Santopadre, il suo allenatore storico. Come a dire che i punti cardinali della sua vita, compreso l’amore per il fratellino, anche lui tennista, sono tutti ben definiti. D’altra parte, sul braccio si è tatuato una rosa dei venti, per non rischiare di smarrire il cammino come fosse un game di servizio venuto male. Quella lasciata fin qui da Matteo è un’impronta destinata a non andare via, un calco griffato Berrettini sulla passeggiata dei fenomeni. Degno della sua stazza, pesante come le sue botte da killer point, deciso come l’uomo che ha riportato il tennis italiano ai fasti di una volta.